Tratto da Cubia n° 100 – Marzo 2010
Aprile 2009: terremoto in Abruzzo. Gennaio 2010: terremoto a Haiti. Febbraio 2010: terremoto in Cile. Distruzione a volontà, morte dispensata a bracciate tra sofferenze indicibili, dispersi, sfollati. Il pianto dell’infanzia impotente è ciò che scuote di più. Il tutto da servirsi a caldo con il solito corredo calcolato di immagini impressionanti e commenti impresentabili. Un pensiero, anche stavolta mi è andata bene, un altro, però che sfortuna, piove sempre sul bagnato. Un Sms di beneficenza per non intaccare la propria autostima di persona dabbene. OK si può ripartire: che si fa stasera di bello?
Non è mia intenzione lanciare la solita invettiva moralistica contro l’indifferenza umana. Potenzialmente potremmo fare molto di più per il nostro prossimo, ma i limiti della nostra capacità di coinvolgerci sono in parte indipendenti dalla volontà e legati all’istinto di sopravvivenza. Ciò che mi chiedo ora, è se il nostro percorso di rientro psicologico nella normalità depurata dall’empatia verso i sofferenti, si lasci interpellare a sufficienza da quanto accaduto, al fine di porre al vaglio la nostra visione religiosa della vita. A volte, tale opportunità ci viene servita su un piatto d’argento quando l’enfasi dei cronisti per qualche ritrovamento improbabile di sopravvissuti sotto le macerie, ne parla in termini di miracolo,echeggiando una qualche contiguità con un intervento salvifico della divinità. Come non avvertire in tal caso la stridente asimmetria con il versante opposto, quello devastante dell’accaduto, che mai viene neanche lontanamente associato alla crudeltà di Dio? Qui occorre valutare in tutta onestà quanto disperato bisogno abbiamo di credere in qualcosa che dia sollievo alla nostra paura della morte. Per molti, poter confidare che vi sia qualcosa di buono e di bello, magari in compagnia dei nostri cari, ad aspettarci oltre Frontiera, esercita un’attrattiva così intensa da far loro abbassare la guardia rispetto alle obiezioni di ogni lucida critica ragionata. La fallacia argomentativa tipica di coloro che fondano la fede nella bontà divina poiché, in sua mancanza, tutta la esperienza umana non avrebbe un senso, è tanto diffusa da avere un nome altisonante, argomentum ad consequentiam: X è tanto più vero, quanto più mi piacciono e auspico le sue conseguenze. La fede come lenitivo, non importa quanto credibile, basta che funzioni. E si riesce nell’intento di far pendere la bilancia a favore della Provvidenza evitando di mettere sul piatto contrario tutto il carico effettivo di dolore disponibile. Un esempio recente di ciò lo offre un volantino diffuso da Comunione e Liberazione in occasione di una raccolta fondi pro Haiti. Titolava “La nostra vita appartiene a un Altro”, citando Don Giussani. Un titolo urlato, a giudicare dai caratteri cubitali, e chi grida spesso lo fa per coprire il mormorio dell’angoscia procurata da argomenti avversi temuti. Prosegue così: “La nostra vita appartiene a qualcosa d’Altro. L’inevitabilità di ciò che accade (il terremoto in questo caso, ndr) è come il sinonimo più chiarificatore di questa non appartenenza a noi della cosa, e soprattutto non appartiene a noi ciò da cui tutto deriva: la nostra vita appartiene a un Altro. In questo senso si capisce perché la vita dell’uomo è drammatica: se non appartenesse a un Altro sarebbe tragica. La tragedia è quando una costruzione frana […] E tutto nella vita diventa niente […]. Ma se tutto appartiene a un Altro, allora la vita dell’uomo è drammatica, non tragica”. Dove stia la differenza, in questo caso non ci viene detto. Forse il dramma, si lascia intendere, contempla un eventuale lieto fine. Ma, per quanto possa essere esaltante, esiste un epilogo in grado di riscattare in pieno il prezzo pagato? Secondo Don Giussani, sì. E la citazione si chiude con la sua apologia: “Il Signore, Colui a cui appartiene il tempo è buono”. Abbiamo almeno il coraggio di ammettere che mai accezione di bontà è più discorde da come la concepiamo nella nostra quotidianità. Se un padre si comportasse con i suoi figli come il Dio Amore con il mondo, nessun tribunale gliene lascerebbe la tutela. Dunque, consiste in questo avere fede, perdonare a Dio ciò che non si tollera nell’uomo? O, come dice Tonon nel suo “Elogio dell’ateismo”, “Vuoi vedere che l’uomo è stato creato davvero a Sua immagine e somiglianza ed è così che si spiegano tante cose? In altre parole: noi somigliamo a Dio? Sì, ma in cosa? Nella malvagità e nell’insipienza di cui diamo ininterrotta dimostrazione?”
Né, più convincente del Dio Amore risulta essere il Dio Signore, capace di mettere a tacere l’incauto Giobbe reo di aver dubitato della Sua giustizia. Giobbe colpito nei beni, nei figli e nella sua stessa carne, tra atroci sofferenze si rammarica: “Se ho peccato che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso?(7,20); Per questo io dico.. : egli fa perire l’innocente e il reo (9,22); Dalla città si alza il gemito dei moribondi e l’anima dei feriti grida aiuto: Dio non presta attenzione alle loro preghiere (24,12). Ed ecco che Dio, ascoltati i tentativi degli amici di Giobbe di discolparLo, rompe gli indugi e assume in proprio la sua difesa giocando la carta della Sapienza creatrice: Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? (38,4) E dopo averlo soverchiato con l’elenco delle infinite meraviglie del creato ne prova la consistenza: “Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio risponda!”(40,2) A Giobbe non resta che abbozzare “Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca”(40,4).
Peccato che Giobbe non fosse contemporaneo di Darwin. Avrebbe potuto rubargli le parole di una lettera all’amico Hooker: “ Che libro potrebbe scrivere un cappellano del diavolo sulle opere goffe, sprecone, vili maldestre e orribilmente crudeli della natura! O se avesse avuto a disposizione i testi di R.Dawkins avrebbe potuto argomentare: “La quantità complessiva di sofferenza inflitta ogni anno nel mondo naturale è al di là di ogni immaginazione. Ogni minuto migliaia di animali vengono mangiati vivi; altri in preda al terrore, corrono a perdifiato; altri ancora vengono lentamente divorati dall’interno da un infaticabile parassita; migliaia di individui di ogni specie muoiono per fame, sete e malattie. Deve essere così. Se vi è un momento di abbondanza questo comporterà automaticamente un aumento della popolazione fino a quando lo stato di equilibrio di inedia e sofferenza verrà ristabilito.
Forse, insieme alla terra, avrebbe tremato anche Dio.
di Amedeo Olivieri